Il teatro come spazio di rinascita nella comunità terapeutica "Eden" del Delfino
La collaborazione tra il centro di solidarietà il delfino, le associazioni dei Cub Alcologicii territoriali e la Q-art, teatro e non solo, ha portato alla realizzazione di un laboratorio teatrale della durata di nove mesi e alla successiva messa in scena di uno spettacolo teatrale “Quella di fuori” per la regia di Ada Di Leone, frutto del materiale emerso nel corso dei laboratori. C’è un momento, durante lo spettacolo, in cui il confine tra realtà e rappresentazione si assottiglia fino quasi a scomparire. Gli attori non interpretano soltanto un ruolo: raccontano sé stessi, percorrono la propria storia, condividono pezzi di vita che fino a poco tempo prima erano custoditi nel silenzio.
È
qui che il teatro smette di essere soltanto un’arte e diventa cura, un processo
capace di trasformare dolore, fragilità ed esperienze difficili in qualcosa di
collettivo, condivisibile, perfino liberatorio.
"Anche io avevo paura che avrei fatto qualche errore specialmente quando ho parlato la lingua madre . Invece ce l'ho fatta", racconta Mohammed.
Lo spettacolo nasce all’interno della comunità terapeutica durante i laboratori teatrali che gli utenti svolgono due volte a settimana insieme a operatori del sociale e professionisti della scena. È un percorso che unisce disciplina, creatività e ascolto: un luogo protetto dove ognuno può esprimersi senza giudizio e dare forma alle proprie emozioni, spesso confuse, ingombranti o difficili da nominare. Alcuni attori di questo progetto sono persone impegnate in percorsi riabilitativi dalle dipendenze, altri stanno imparando a convivere con la propria vulnerabilità, altri ancora stanno costruendo giorno dopo giorno una nuova identità. Durante i laboratori emergono ricordi, pensieri, testimonianze personali che vengono raccolti, rielaborati e cuciti abilmente insieme dalla regista, fino a diventare un testo teatrale.
Il
risultato non è mai fiction pura. È una narrazione corale, un vero spaccato di
vita che mostra la quotidianità della dipendenza e del recupero, le difficoltà,
ma anche le possibilità di rinascita.
Il pubblico si ritrova così davanti a un’umanità autentica, non filtrata, che racconta l’esperienza dell’internamento, dei gruppi, delle ricadute e delle speranze attraverso una lente profondamente umana. A guidare il progetto c’è la regista, che con sensibilità e competenza riesce a trasformare un materiale emotivo eterogeneo in una storia unica e coerente. Accanto a lei lavorano educatori, operatori delle dipendenze, volontari e associazioni territoriali, tutti uniti dalla convinzione che il teatro possa essere un potente strumento riabilitativo.
Il laboratorio diventa così un luogo in cui i partecipanti non solo imparano a recitare, ma allenano l’ascolto, la fiducia, la gestione delle emozioni e la capacità di lavorare in gruppo. Sono abilità fondamentali non soltanto sul palco, ma soprattutto nella vita quotidiana e nel percorso di recupero. Lo spettacolo si apre con la testimonianza diretta di un attore che ha già attraversato il percorso e può raccontare la propria rinascita. Le sue parole sono un dono, un messaggio potente per chi sta affrontando il cammino della guarigione e per il pubblico che osserva. Ricorda a tutti che la fragilità non è un marchio, ma un tratto umano e che , come canta Brunori Sas — nessuno è soltanto una scatola vuota o l’ultima ruota del carro più grande che c’è. Perché questo spettacolo è importante per tutti, non solo per chi lo fa.
Portare sul palco queste storie significa restituire dignità alle persone che spesso si sentono invisibili. Significa mostrare che dietro ogni dipendenza c’è una persona, una storia complessa, un vissuto che merita ascolto. Significa offrire al pubblico l’opportunità di conoscere un mondo che troppo spesso viene raccontato solo attraverso stereotipi. Ma soprattutto significa dimostrare che l’arte può essere una forma di resistenza, di cura e di rinascita.



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