Dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle Rems, un passo verso l’umanità. La “rivoluzione gentile” è ancora in atto
di Katya Maugeri
Una rivoluzione gentile, non cruenta è quella che ha permesso
la chiusura di un luogo che era rimasto l’ultimo dei manicomi e
l’apertura a una speranza, una nuova dimensione della cura dei pazienti,
chiamata Rems ovvero residenze per l’esecuzione della misura di
sicurezza sanitaria. Strutture che accolgono pazienti psichiatrici che hanno
commesso dei reati.
Era il 31 marzo 2015 e gli ospedali psichiatrici
giudiziari (Opg) più noti con il nome di manicomi criminali, venivano
chiusi definitivamente per aprire le porte a una nuova realtà.
“Un orrore inaccettabile in un paese appena civile”. Così
Giorgio Napolitano definì gli Ospedali psichiatrico-giudiziari.
Per un decennio e oltre, l’associazione Antigone ha
denunciato incessantemente le condizioni terribili di vita dei malati
psichiatrici internati negli Opg. Ovvero dei manicomi in cui venivano rinchiusi
persone con disturbi psichiatrici dei cittadini con disturbi che avevano
commesso dei reati per i quali c’era l’incompatibilità con il sistema
carcerario tradizionale e a cui il magistrato applicava una misura di sicurezza
con l’interdizione mentale.
Dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle Rems
“Abbiamo aperto la nostra Rems nell’ottobre 2016, in un
paesino vicino Cosenza. I cittadini erano turbati, infastiditi, avevano paura
di questa struttura, di questi “pazzi” che dovevano arrivare. Muri e pregiudizi
anche da parte dell’amministrazione”, ci racconta orgoglioso Renato
Caforio, presidente del Centro di solidarietà il Delfino. “Ma noi, alla
fine, con rispetto e dedizione siamo riusciti a smussare tutte queste
resistenze: la struttura ha aperto senza recare alcun danno, e dopo un anno,
l’amministrazione comunale durante un convegno pubblico ha riconosciuto il
pregiudizio. Credo che se lavori con serietà e passione anche un progetto come
le Rems possano essere integrate nel territorio. Abbiamo aperto alla comunità
questa esperienza, tanto da far cadere ogni barriera legata al pregiudizio,
alla diffidenza, ci confrontiamo con altre realtà sociali e non troviamo
particolari resistenze, riusciamo a dialogare bene con la società e con le
istituzioni del territorio. Nel 1986 abbiamo scelto di aprire questa
cooperativa per occuparci di emarginazione”.
Si tratta di una cooperativa, Il Delfino, all’interno
della quale vengono trattati vari servizi: la tossicodipendenza, la Rems, una
residenza psichiatrica e l’accoglienza dei richiedenti asilo.
“La Rems prevede un piano riabilitativo individuale – ci
spiega Caforio – con attività da svolgere singolarmente e in gruppo:
laboratori, gruppi di terapia per recuperare le attività sul piano personale,
attività sull’inserimento per garantire al paziente la possibilità di
reinserirsi nella società avendo una capacità di autonomia. Nel 2015 è partito
l’iter che coinvolge le regioni italiane, ognuna delle quali ha organizzato le
proprie Rems nel proprio territorio e in cui per ogni paziente deve esserci un piano
terapeutico riabilitativo individualizzato e il percorso dura fin
quanto dura la pena, fino a quando effettivamente quando può essere inserito
all’interno di una struttura post-Rems. Non abbiamo di certo risolto il
problema, ma siamo dinanzi a delle strutture sanitarie, riabilitative con
personale addestrato esclusivamente socio sanitario, non sono presenti forze
dell’ordine, polizia penitenziaria, solo personale in una equipe
multidisciplinare che ha il compito di garantire un percorso riabilitativo per il
paziente: non detenuto, non internato ma paziente“.
Si redigere, infatti, un piano terapeutico che viene
costantemente monitorato in base agli obiettivi da raggiungere, lo si fa con la
collaborazione dell’assistente sociale, lo psicologo, psichiatra, gli educatori,
si muovono in un numero anche più ristretto di pazienti, normalmente le
Rems possono accogliere fino a un massimo di venti pazienti. Siamo quindi in
una ottica di comunità e non di un ospedale.
“I loro reati sono spesso commessi in un momento di follia e
in conseguenza di una patologia”
Se una struttura, autorizzata ad accoglierli, non è
realizzata in un contesto socio sanitario o comunitario, non può migliorare la
loro condizione salute mentale né suggerire la consapevolezza di essere autore
di reato, quindi di aver commesso un errore. Se una persona si “abbrutisce”
durante il percorso detentivo non si può certo sperare che possa migliorare la
propria condizione psichica e comportamentale. Si tratta di esseri umani, la
cui dignità è stata rinnegata durante la permanenza di quei luoghi d’orrore
chiamati Opg: sottoposti a violenze fisiche come la contenzione e reclusi in
spazi così deteriorati da risultare disumani. “Le Opg erano identici, se non peggiori, ai manicomi –
continua il presidente Caforio – non avevano di certo un carattere né
riabilitativo, rieducativo né si presentavano come strutture in grado di
rispettare la dignità umana anche di chi ha commesso un reato, in un sistema di
quel genere la persona era privata non solo della libertà, ma addirittura dei
propri diritti”.
I “folli criminali” venivano chiusi e dimenticati. Esclusi
dai percorsi di cura e molto spesso condannati a quello che veniva chiamato “ergastolo
bianco”, ovvero detenuti per periodi ben più lunghi di quelli previsti per il
crimine commesso, in alcuni casi sino alla morte e senza un motivo chiaro.
Prospettive e strumenti della “recovery”
Le patologie sono varie e spesso molto gravi: dalla
schizzofrenia, alla psicosi, pazienti con tratti antisociali, patologie che
devono necessariamente essere trattate con un mix di approccio farmacologico e
psicoterapico, che non possono fare a meno di una terapia farmacologica. “Ci
avvaliamo del lavoro di “recovery” – spiega Caforio – una nuova
corrente americana: il paziente non è più solo un oggetto a cui dare una
diagnosi e una terapia, ma è un soggetto che attivamente partecipa alla cura”
Inoltre il paziente è aiutato a tornare protagonista della sua cura, sia
farmacologica, psicologica che riabilitativa. È un percorso di guarigione, un
percorso di consapevolezza dei propri sintomi, della malattia e della loro
cura. “Si tenta di recuperare le funzioni cognitive e comportamentali, per
cercare di dare loro una possibilità di un reinserimento, per rendere migliore
la qualità della vita di persone che hanno vissuto ai margini”. L’ultimo Opg
chiuso è stato quello di Barcellona Pozzo di Gotto, dal quale abbiamo accolto
alcuni pazienti.
L’inserimento dei pazienti non è stato facile: sono arrivati
con il furgone della polizia penitenziaria, uno è sceso ammanettato. Quando
sono entrati non hanno trovato né celle, un personale giovane pronto ad
accoglierli, né camere di sicurezza, di contenzione, camice di forza, nessuna
sbarra. Inizialmente hanno persino avuto una reazione violenza – rivolto alle
cose, non alla persone – non erano abituati a quel tipo di ambiente. Sono
servite alcune settimane per instaurare un rapporto di fiducia e relazione tra
l’operatore e il paziente. Man mano che hanno compreso che la relazione era
umana e non solo terapeutica sanitaria, è nato lo sviluppo del servizio. Si è
impostato il clima della comunità”.
Sono uomini che hanno imparato ad acquisire la capacità di
relazione, recuperando non solo le abilità sul piano personale – ovvero
prendersi cura della propria persona – ma hanno imparato a sentirsi parte di un
gruppo. “Alcuni di loro hanno recuperato anche il rapporto con le famiglie – conclude
Renato Caforio – c’è chi era finito negli OPG per violenza in famiglia, dopo il
percorso vissuto nella Rems sono andati più di una volta a casa, in licenza, e
non è mai accaduto nulla. Siamo consapevoli di non poter salvare il
mondo, ma attraverso un programma terapeutico riabilitativo, clinico, sociale
ed educativo possiamo aiutare una persona, nelle peggiori condizioni
esistenziali, a risollevarsi.
Tante persone che avevano commesso reati gravi
sono riusciti a cambiare la loro vita”.
Persiste la paura da parte della società, ed è legittima. È
un sentimento umano rispettabile.
Ma esiste anche la possibilità, attraverso dei servizi e
delle strutture adeguate e dignitose, di ridare alle persone che hanno commesso
degli errori, una seconda chance, la possibilità di essere salvate dal
pregiudizio, curate e nuovamente recuperate dalla società. Quella umana, che
accoglie e ama.
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