E la luce risplende nell’oscurità





Editoriale di Renato Caforio

In un libro di qualche anno fa da titolo: “L’ospite inquietante: Il nichilismo e i giovani”, Umberto Galimberti, filosofo, psicanalista sostiene che “…La disintossicazione farmaceutica e la disintossicazione comunitaria, l’una con la chimica l’altra con il calore della comunità, alla fine restituiscono l’individuo alla sua esistenza cruda, da cui un giorno quell’individuo si era allontanato perché la vita non aveva fatto presa. E dove la vita non fa presa non c’è chimica né comunità che tenga, c’è solo la voglia di non vivere come puro quantitativo biologico…”.

Ma è proprio così? Al “mal di vivere” non esiste rimedio? L’ospite inquietante prevale su ogni possibile ri-nascita dell’uomo? Gli facciamo rispondere da uno psichiatra viennese Viktor Frankl, ebreo sopravvissuto al lager di Auschwitz, nel libro: “Uno psicologo nei lager” scrive: “…Ma se vi fosse stato che un solo uomo, basterebbe la testimonianza di quest’uno, per asserire che l’uomo può essere nel suo intimo più forte del destino che gli viene imposto dall’esterno…”.  

La sua testimonianza di sopravvissuto ad una tale atrocità, restituisce l’idea che la vita, anche nelle situazioni più avverse, difficili e che ci mettono alla prova, possiede un senso ed è dell’uomo la capacità nella libertà di attingere dalle proprie risorse spirituali. Ma come si riesce a “liberarsi” dal mal di vivere? Non esiste una ricetta o una risposta unica e valida per tutti gli uomini. Facciamo ricorso ancora a Viktor Frankl per cercare di offrire un orientamento: “…Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore. Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema – sia pure per qualche attimo – nella contemplazione dell’essere amato…”.
Ogni uomo anche se costretto in un campo di concentramento ha la capacità/libertà di sopravvivere attingendo alle proprie risorse più intime, quelle spirituali. Le comunità, a qualsiasi disagio esistenziale o patologia si offrono, ma anche l’uso della chimica finalizzato all’affrancamento dalla dipendenza, sono un’esperienza umana, prima ancora che clinica o terapeutica, che cercano di alimentare le risorse “spirituali” che sono presenti in ogni uomo. 
Non bastano le droghe o il vissuto personale o una società nichilista per annientare la forza spirituale che è in ognuno di noi, da cui possiamo attingere per vivere una vita piena di significato.

Commenti

I più letti

Le regole del gioco

A dirsi ti voglio

Come Forrest Gump