La cura in Carcere


di Roberto Calabria

Direttore U.O.C.Serd ASP Cosenza

Spec. in Medicina Interna
Perf.in Medicina Penitenziaria

Curare il corpo, non tralasciando di coinvolgere lo spirito.
Si addice al Medico Penitenziario un pensiero di Socrate che parlando ad un amico medico disse: ”Se tu sei veramente un medico, sappi che quando curi gli occhi, dietro gli occhi c'è la mente e dietro la mente c'è l'anima e che per curare gli occhi ,devi capire l'anima". 
Ventuno anni di professione medica dedicata ai detenuti mi ha insegnato tanto, intanto credo che sia una maniera nobile di fare Medicina, quella con la M maiuscola. Non una medicina difensiva, non una medicina caritatevole, non una medicina marginale. La sua pratica, se è sistematica ed organizzata, può divenire metodo di lavoro e strategia operativa. La stessa popolazione detenuta con una mappa variegata di tossicodipendenti, malati di AIDS, epatite virale, malati psichiatrici è passata da 18.000 del 1970 agli oltre 60.000 detenuti di oggi. È notevolmente cresciuta la domanda di salute e la  stessa moderna concezione della salute impongono agli operatori penitenziari una rinnovata attenzione ai complessi problemi del recupero dello stato di benessere psico-fisico del paziente-detenuto e di un rinnovato stile di vita in una visione globale, non tralasciando le inscindibili correlazioni con l'ambiente carcerario.

Tutto questo deve essere realizzato attraverso il governo clinico, laddove per governo clinico si deve intendere la capacità di gestire la risposta sanitaria cercando di farla aderire al bisogno di salute della popolazione detenuta. Nello specifico il governo clinico consiste nell'organizzazione e nella gestione di quegli elementi che stanno alla base della qualità dell'assistenza sanitaria penitenziaria, cioè la preparazione non soltanto dei medici ma di tutti i componenti dell’equipe con le varie figure professionali. La competenza professionale, l'aggiornamento scientifico, la relazione medico-paziente ,la qualità delle prestazioni sanitarie, la precarietà delle risorse sono alcuni dei nuovi temi che sono ormai diventati parte integrante di quello che significa lavorare in carcere. Operatori fortemente impegnati ,in considerazione dell'alto grado di responsabilità che deriva dall'estrema delicatezza dei compiti loro affidati. È necessario sentire l'importanza del proprio operato, riuscendo a cogliere la necessità della formazione professionale.

A volte mancano, però, gli stimoli per andare avanti e per far bene.

I Dirigenti delle U.S.L. ,competenti per territorio ,devono fare una seria riflessione e devono essere in grado di operare finalmente una scelta di qualità, investendo nella formazione degli  Operatori Penitenziari, in aderenza delle prerogative della Riforma della Medicina Penitenziaria.
La programmazione di una assistenza adeguata alle esigenze deve mirare a realizzare la razionalizzazione ,l'equilibrata distribuzione e l'incremento dell'efficienza dei servizi sanitari su tutto il territorio nazionale e non a macchia di leopardo. Il Servizio Sanitario Penitenziario deve divenire un servizio di comunità capace non solo di rispondere alla singola necessità assistenziale, ma anche in grado di saper programmare ed adeguare la propria risposta alle emergenze sanitarie che periodicamente compaiono nelle carceri. La pratica penitenziaria è la disciplina delle decisioni e dei fatti. Essa è complessa e composita, vi convivono una dimensione clinica e una dimensione sociale; una dimensione psicologica ed umanistica con una dimensione tecnica, una dimensione organizzativo-gestionale, una dimensione culturale e di ricerca. Tutte queste componenti appartengono ad  un'unica professionalità, suo compito principale è risolvere i problemi con una necessaria cultura preventiva.

Chi sono gli operatori penitenziari? Sono gli Specialisti dell'emarginazione, con un bagaglio di tanta disponibilità umana e professionale. Si risponde con le parole, con i gesti, con il comportamento, con la vicinanza fisica e con la distanza diagnostico-terapeutica. Di fronte agli abissi di necessità bisogna predisporsi soprattutto ad ascoltare. Del paziente-detenuto vanno tenuti in considerazione il mondo affettivo e culturale, i rapporti familiari e sociali, i vissuti di avvenimenti stressanti. Un malato particolare che ha già perso quel bene prezioso che è la libertà. Il problema centrale è l'esistenza di comunicabilità tra operatori e paziente-detenuto. È necessario avere il tempo per ascoltare in profondità il detenuto, non mutilando così la propria capacità di comprendere la reale natura dei suoi disturbi. L'uomo non è, non può essere una bestia da domare ,un bersaglio eventuale da colpire.
Chi lavora in carcere deve essere dotato di grandi valori umani, di notevoli doti personali di intuito, di cultura non solo medica, di esperienza e soprattutto di profonda conoscenza dell'ambiente carcerario per poter tentare di risolvere i molteplici, complessi problemi che si presentano quotidianamente. Una scienza come tutte le altre Scienze sperimentali sempre più capace non solo di osservare ,ma anche di modificare le condizioni di vita del detenuto.

Il bisogno antico della speranza che ha radici nel cuore dell'uomo e ne scandisce i pensieri e il profondo desiderio di non perdere anche la salute con il peso della sofferenza. Esiste in ciascuno la dimensione della vocazione ,del riconoscimento in quelli che soffrono quando dolore e paura giocano un ruolo predominante nella malattia del paziente: la riconosciamo nelle mani che stringono, nelle spalle che sostengono il peso della responsabilità quando magari nessun altro si fa avanti.

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