Un cammino di speranza, per tutti
don Salvatore Vergara
Victor Frankl, psicoterapeuta austriaco, visse nel campo di
Auschwitz, sopportando sofferenze immani. Ma notò ad un certo punto che quelle
sofferenze non erano sopportate da tutti allo stesso modo. Ci racconta in un
suo libro che chi aveva qualcosa in cui credere (una donna, una fede, un
ideale) viveva più a lungo di chi, invece, senza alcuna speranza, lasciava che
la morte lo prendesse più rapidamente degli altri. Un giorno per un banale
motivo fu costretto a parlare ai suoi compagni di baracca per “tirarli su”.
Espose diversi argomenti, molto convincenti per rianimare i suoi compagni ma
poi, alla fine parlò loro “del futuro.
Dissi che il futuro poteva apparire squallido, agli occhi di un osservatore
imparziale.
Convenni che ognuno di noi poteva calcolare approssimativamente
quanto poco probabile fosse uscire vivi dal Lager. Benché non vi fosse ancora
l’epidemia di tifo petecchiale, valutavo al 5 per cento la speranza di
sopravvivenza, e lo dissi agli altri. Poi dissi anche che io, per quanto mi
concerneva, non pensavo neppure di lontano, nonostante tutto, a rinunciare alla
speranza, ad abbandonare la lotta: perché nessun uomo conosce il
futuro, nessun uomo sa che cosa può portargli magari l’ora successiva. E se non era lecito
attendere per l’indomani eventi militari sensazionali, chi meglio di noi (con
la nostra esperienza del lager) poteva sapere se non sarebbe sopravvenuta
all’improvviso una qualche prospettiva, almeno per qualcuno: un’insospettata
inclusione in un piccolo trasporto verso un campo di lavoro a condizioni
particolarmente favorevoli, o qualcosa del genere. Cose che sono la
grande aspirazione di un internato: la sua felicità”.
(A. Frankl, uno
psicologo nel lager, Edizioni Ares, città di castello (Pg), 1999, pagg.
135-139).
Queste parole sono il senso di quello che avviene ogni volta
in una comunità terapeutica quando si svolge il rito, oramai consolidato, delle
graduazioni. Questa cerimonia (se la si può chiamare così) è, semplicemente, un
inno alla speranza: la speranza che, nella vita, il male non ha la parola
definitiva sull’uomo. Questi uomini, che si presentano con la vita ripresa di
nuovo nelle loro mani, non hanno solo semplicemente creduto di “farcela”, ma
hanno sperato, ogni giorno, che il futuro sarebbe stato (come di fatto è stato)
migliore del presente e che guardare al futuro con fiducia è quello che deve fare
ogni uomo. Già, ribadisco, ogni uomo: vivere senza speranza è il guaio dei nostri
giorni, la mancanza di speranza è la malattia più diffusa nel nostro mondo e
tra la nostra gente: in questo senso siamo un po’ tutti tossici, persone che non
credono nella redenzione e che non guardano al domani con quell’occhio libero e
gioioso che ti fa non solo sorridere al futuro, ma sperare in una vita diversa,
migliore. Allora l’augurio è sempre lo stesso: abbiamo bisogno di imparare la
speranza, abbiamo bisogno di comprendere che non basta “cogliere l’attimo”, bisogna
assaporare il gusto del credere fermamente che il domani sarà il senso, il vero
motivo, di ciò per cui oggi lottiamo, ci sacrifichiamo e, magari, soffriamo in
maniera indicibile. Questi uomini ci insegnano questo: sapremo noi apprezzarlo
e, soprattutto, imitarlo? Speriamo!
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