Non sono un principe azzurro, ma azzurro è il colore della vita che vorrei vivere
di Giusy Schipani
mediatrice penale
Nonostante la crisi globale che padroneggia lo scenario
sociale attuale, viviamo un benessere materiale che non ha conosciuto
precedenti nelle passate epoche. Sembra la ricetta perfetta per la felicità! E
invece non è così. La “sofferenza di vivere”, pare essere la vera protagonista
del palcoscenico della vita, poiché rappresenta una condizione che transita
nell’arco vitale di ognuno e ciò che la differenzia è il modo mediante il quale
si manifesta, si affronta e si racconta. Sicuramente non tutti saremo come
Eugenio Montale, il quale la esplicita per mezzo di una delle sue opere più
importanti “Il male di vivere” e neppure
come Munch, il quale l’ha manifestata mediante il dipinto norvegese più famoso
al mondo – “L’urlo di Munch”.
Eppure nonostante le diverse predisposizioni che ci
contraddistinguono, esistono comunque dei tratti che ci accomunano,ovvero
ognuno è artista della propria esistenza,dove i “perché” nascosti, le scelte
volontarie,imposte o indotte, rappresentano la matita che tracciano
il grande disegno che è la vita, mentre
le conseguenze ne raffigurano i colori e le sfumature. Si capisce dunque come la sofferenza è compagna inseparabile
di ogni esistenza umana. C’è la sofferenza fisica del corpo, con l’esperienza
della malattia, la sofferenza morale, dell’anima, più dilaniante di
quella fisica, causata dall’ingratitudine, dall’abbandono, dal tradimento,
dall’emarginazione, dal disprezzo e ancor di più dalle proprie colpe. C’è la
sofferenza psicologica che spesso fa da corollario al dolore fisico e al dolore
morale e si manifesta sottoforma di tristezza, di delusione, pessimismo,
scoraggiamento, depressione.
Talvolta poi, queste diverse forme di
sofferenza, si sovrappongono una all’altra fino a trasformarsi in veri e propri
flagelli sociali. È dinnanzi a tutto ciò che nasce la riflessione “noi siamo più
poveri rispetto ai nostri antenati”, perché siamo poveri di spirito e di
sentimenti forti, siamo privi di tradizioni da amare e da rispettare, perché
tendiamo a non avere rapporti con il passato, in quanto presuntuosamente
crediamo che sia una condizione da mettere da parte o meglio ancora da
dimenticare, senza renderci conto che “chi non ha un passato non ha un futuro”.
Questa felicità artificiale dispensata a tutti, ci
rende incapaci di comprendere e di accettare il mondo attuale che molte
volte ha perso i valori morali e che sembra solo capace di offrire
modelli di consumismo sfrenato. Viviamo una società dove il detto
cartesiano: “Cogito ergo sum – Io penso quindi esisto” è stato sostituito
da “Io devo essere ciò che gli altri vogliono”, perché così facendo si può
sviluppare quel senso di appartenenza che in realtà si traduce in un mero
conformismo, il quale ci rende non esercenti la capacità di valutazione
critica e di discernimento.
Questo è
quello che spesso accade, “nella realtà non sono ciò che in verità vorrei
essere”, e come dire metaforicamente “non sono un principe azzurro, ma azzurro
è il colore della vita che vorrei vivere”.
Allora è giusto chiedersi: “qual è
il nostro impegno per rendere la vita di ciascuno, oltre che la nostra stessa,
migliore? Cosa preferiamo? Morire lentamente diventando schiavi delle abitudini
e ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi?”. Ricordiamoci quanto consigliato
da Martha Medeiros in una delle più celebri opere di tutti i tempi – Lentamente
muore - “Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza, porterà al raggiungimento di una splendida
felicità”.
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