Joy, dall’orrore della mafia nigeriana a Lampedusa, il porto della speranza
di Katya Maugeri
«Ho visto un bambino addormentarsi e morire, lì davanti a
me. Sulla barca una donna ha preso suo figlio e lo ha buttato in mare per
salvarlo da quelle violenze: costanti e disumane. La disperazione, altro che
speranza. Eravamo 150 persone, non ricordo tutto, ero stordita: i miei bambini
di cinque mesi erano distanti, non li avevo in braccio perché ho viaggiato
immersa nella benzina. Guarda qui la mia gamba, porto addosso i segni di
quell’orrore».
Lei è Joy ed è stanca di ripercorrere quei ricordi,
«ma è necessario scriverle queste cose: la gente non fa altro che parlare senza
conoscere il nostro inferno. È bene scriverle le nostre storie, non scegliamo
di morire in mare per un capriccio o per conquistare terre di altri. La gente
dovrebbe trascorrere un solo giorno di quelli che viviamo noi. Guardare con i
loro occhi l’inferno che ci circonda per capirne l’orrore e il desiderio di
fuggire via».
Joy non è più tornata a Lagos, in Nigeria. Adesso è ospite
allo Sprar – sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati
– di Figline (gestito dal Centro di solidarietà Il Delfino) in
Calabria, un paese che non respinge l’accoglienza, «quella ben organizzata,
s’intende – spiega il sindaco Fedele Adamo – stiamo vivendo un esodo
biblico, un fenomeno mondiale, al di là dei pensieri politici io credo
fortemente che lo Sprar sia il sistema di integrazione migliore». E lo è
infatti. Mentre parliamo, io e Joy, i bambini del quartiere giocano insieme
nella piazzetta ascoltando i tormentoni estivi. Nei loro sorrisi innocenti è
celato il ricordo di un atroce viaggio.
«Mi aveva promesso un lavoro in Libia, un futuro migliore
lontano dalla Nigeria. Lei era una signora che sembrava aver preso a cuore le
mie paure. In pochissimi giorni organizza il mio viaggio: raggiungo così la
Libia non trovando nulla, solo un’altra “madame”». È un’organizzazione
senza scrupoli, la mafia nigeriana, che utilizza riti esoterici per
schiavizzare ragazze arrivate clandestinamente soprattutto dalla Nigeria con la
speranza di una vita migliore.
È tra le più potenti e organizzate a più livelli. Si
sottovaluta spesso l’importanza dei loro “culti” di tipo esoterico-magico come
il voodoo o ju-ju, attraverso i quali sigillano un legame spirituale per
terrorizzare le vittime. Rituali, praticati con capelli, sangue e unghie,
pronunciando un giuramento nelle mani di queste “maman” che inducono
le ragazze a cedere a qualsiasi genere di attività, terrorizzate da quello che
potrebbe accadere loro o alle famiglie. Nel gradino più basso, nella loro
scala gerarchica, troviamo proprio le maman: ex prostitute che gestiscono il
reclutamento delle ragazze che avviene con promesse fasulle di impieghi da
colf, cameriere, lavori legali e dignitosi. Si occupano, inoltre, del loro
arrivo in Europa: le addestrano, le mettono in strada. Giornate di prigionia,
di minacce, di violenze, di ricatti, di paura e umiliazione. «La madame mi ha lasciata
in una stanza senza mangiare né bere. Per due giorni. Non era vero niente:
ad aspettarmi non c’era nessun lavoro, nessun negozio. Bugie, solo bugie».
Le ragazze nigeriane arrivano già con un debito altissimo
nei confronti di quelle che si riveleranno le loro aguzzine, cifre altissime
che sfiorano anche i 50mila euro. «Dovevo ridarle i soldi del viaggio,
circa sei mila dollari. Mi sono rifiutata, non volevo cedere. Ero disposta a
fare qualsiasi lavoro pur di saldare quel debito e ritornare a essere libera. E
invece mi chiude in casa per due settimane. Prigioniera. Ripetevo che avrei
cercato un lavoro per avere quei soldi, non volevo prostituirmi. Mi concede 48
ore di tempo per recuperare qualche lavoretto. Il primo giorno, insieme a
un’altra ragazza che viveva la stessa situazione, eravamo sicure di poter
trovare una soluzione, lavorare come commesse, per esempio. Ma quelle strade
sono insediate e noi eravamo troppo ingenue e spaventate per capire, abbiamo
chiesto informazioni a un ragazzo, apparentemente gentile. In realtà era un
ladro. Il secondo giorno avevo trovato piccoli lavoretti in strada: manicure,
treccine colorate, ma intanto la madame mi aveva venduta a un’altra maman,
pagando quel debito di sei mila dollari». Sono donne che diventano oggetti in
uno squallido mercato, quello dello sfruttamento sessuale, la terza attività
più redditizia – secondo le Nazioni Unite – dopo le armi e la droga.
«Ero riuscita a convincerla: avrei pagato a rate il mio
debito, ma senza prostituirmi. Nelle “connection house” – le case del sesso –
giornalmente ci sono oltre venti, trenta uomini che sfruttano una sola ragazza.
Alcune riuscivano a sostenere questi ritmi, io no. Io sognavo una vita normale,
lontana da quell’orrore, in quel periodo mi sono sposata e sono rimasta incinta
dei miei due gemelli. In pochi mesi ero riuscita a ripagare 5mila dollari,
a quel punto ho chiesto uno sconto – alcune maman lo permettono. Lei no. Ero
fisicamente esausta, mi ero cimentata in lavori pesanti, prettamente maschili e
non avevo più la forza. La imploravo di lasciarmi libera, lei, invece, mi aveva
già venduta a una terza madame. Debiti che si sommavano: un inferno senza
fine. Un labirinto dal quale non sarei più uscita. In quel preciso istante
ho deciso di scappare. Un viaggio durato quasi due anni. I miei bambini
avevano cinque mesi quando siamo partiti. Un incubo. Ma come fa la gente a non
capire? A giudicare puntando il dito contro? Mi trovavo dalla parte in cui
fuoriusciva benzina: non sentivo bruciore, dolore, nemmeno l’odore. Non ero in
me, volevo solo arrivare sana e salva insieme ai miei bambini. A Lampedusa
erano in tanti ad aspettarci: numerose tende, comode sedie e tantissimi
volontari con acqua per adulti e bambini. Ricordo poco perché sono stata
trasferita d’urgenza in ospedale per le ustioni alle gambe».
Joy ha i segni sul corpo e sull’anima – si percepiscono
anche quelli – sorride mentre taglia la crostata al limone che ha preparato,
fuori i suoi bimbi giocano e si divertono con i ragazzi del quartiere.
Le loro sono storie di emarginazione, di crudeltà, come
quella di Blessing fuggita da Douala per ribellarsi al volere del
padre, a un futuro che altri scelgono per loro. A devastarli, durante la
tratta, non è solo il mare e le violenze fisiche, ma i pregiudizi, gli
stereotipi spesso diffusi dal dibattito politico che alimentano odio e la
facilità di condannare donne, uomini e bambini ritenendoli estranei, non idonei
e ben lontani dal concetto di umanità.
Joy guarda la sua ferita alla gamba e quando le chiedo cosa
si aspetta dal futuro lontano dalla Nigeria indica i suoi figli, «da madre
l’unico mio pensiero è rivolto a loro. Come ogni mamma al di là del colore e
della nazionalità, il mio compito è assicurarmi che loro abbiano un futuro
felice, e che un giorno possano comprendere lo sforzo che ho fatto per donargli
una vita normale. Lontani dalla guerra e più vicini all’amore».
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