La parte più rigida del mio carattere




di Andrea Bruzzi

La parte più rigida del mio carattere, fino a qualche anno fa, era stata la mia più grande nemica.
Lo è tutt’ora, ma con un patto di non belligeranza firmato da entrambi. A volte mi capita- nei rari momenti di silenzio e tranquillità in comunità - di pensarmi dall’altra parte, di sforzarmi a ragionare, pensare, muovermi e osservare tutto come se stessi vivendo quei precisi momenti guardandomi dall’esterno. Faccio questo per provare ad immedesimarmi nell’altro, illudendomi che questa tecnica - o presunta tale - possa facilitarmi nei rapporti umani sul posto di lavoro. Che possa spianarmi la strada verso un concetto di empatia tante volte immaginato, pensato, ma mai coerente con il prodotto finale: quello della realtà. La mia presunzione mi spinge ad illudermi che basti anche solo un pizzico di connessione mentale con chi vive dall’altra parte della trincea, dimenticando che tutti noi - operatori e utenti - siamo frutto di storie personali. E le storie dobbiamo scriverle, conoscerle e tramandarle.
Manca l’elemento centrale, il lasciapassare, il codice pin che possa determinare la riuscita o il fallimento di una relazione operatore/utente dignitosa, non ottima, ma accettabile: saper leggere, appunto, le storie personali. Il lavoro in comunità può essere usurante se l’approccio è sbagliato, ma può esserlo anche se l’approccio è giusto e la mentalità e le aspettative sono disorientate. Col tempo ho dovuto creare delle simmetrie al mio carattere, perché ritenevo che il concetto di simmetria coincidesse con quello di equilibrio ed utilizzavo in modo troppo semplice il rapporto tra antagonismi come metro di giudizio per determinare e separare ciò che ritenevo giusto da ciò che ritenevo meno giusto. Questo aveva nutrito la mia parte rigida, rendendola un mastino dominante sul resto. Ben presto, mi capitò di sbattere coi denti su una realtà che demoliva anni di convinzioni sbagliate. Non sono mai stato nella vita e nel lavoro, una persona giudicante, avendo da sempre una sorta di impostazione abbastanza tollerante e pacata, ma lavorare in comunità ha, alla lunga, dato un indirizzo completamente diverso al mio carattere. E di questo mi trovo a ringraziarla, a rendere omaggio ed a stringerle la mano, per quanto possa avermi insegnato. 
Il punto è questo: troppo spesso siamo portati ad associare a un evento o a una singola persona una nostra vittoria, intima o pubblica, perché ci rapportiamo sempre con figure ben distinte, con elementi tangibili. Mi ero reso conto, invece, che il mio modo di pensare era stato modificato in modo inconfutabile da una realtà diretta, apparentemente spersonalizzante, asettica e anaffettiva come una struttura. Un posto. Una casa. Delle mura. Nei rari momenti cui accennavo prima all’inizio, avevo capito che col tempo potevo coglierne le sfaccettature, i colori, i suoni. Avevo capito che non dovevo fermarmi agli spigoli, alle pareti fredde, tristi. Avevo imparato che non era solo un posto dove ricaricarsi, nascondersi, cercare un senso alla vita. Adesso lo vedevo chiaramente - perché ci credevo - come un posto dove imparare a volersi bene, dove costruire opportunità, coltivare dignità e capire che, di stessi, bisogna accettare limiti e difetti. Vergogna e deficit. Perché il non accettarsi è il primo passo verso l’insoddisfazione e la frustrazione che iniziano a far marcire la mente e poi il corpo. In questo contesto, tutti gli utenti avevano cercato di orientarsi al buio, cercando di raggiungere un equilibrio che non equilibrio non sarebbe mai stato, bensì illusione e confusione.
Lentamente ho imparato a rispettarne i tempi, utilizzando con molto rispetto umori e poca disponibilità, a fare tesoro dei momenti che avrei voluto scartare e a ripartire senza mai dimenticare i vissuti dell’utenza. Vivere un contesto del genere, indipendentemente che lo si faccia smontando alle 16:30 o trasferendoci interamente il proprio mondo ci pone quotidianamente di fronte all’eterno “conflitto”, che è quello di restare ancorati alle nostre convinzioni, false certezze, certezze autentiche, oppure avere il coraggio e la serenità di uscire dalla nostra zona di comfort e accettare una prospettiva diversa, magari non totalmente migliore, ma capace di arricchire.

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