I valori dello spirito al tempo del Coronavirus




di don Salvatore Vergara
presidente onorario de “il delfino”

Permettetemi, in questi tempi così delicati e problematici, un piccolo contributo che esprima non solo il mio piccolo punto di vista, ma anche un sentito e affettuoso messaggio per l’intera famiglia del “Delfino”.
Scorrendo i canali televisivi ci imbattiamo, tutti, in diversi e variegati esperti che vogliono renderci edotti su vari temi con cui abbiamo a che fare quotidianamente: una pletora di virologi, epidemiologi, pneumologi, riabilitatori ci stanno dicendo ogni giorno che cosa ci sta accadendo, come dobbiamo comportarci, a che cosa dobbiamo stare attenti, le precauzioni da prendere e così via … Insieme a questi esperti, c’è anche tutto un mondo di opinionisti che dicono la loro sulla ripresa, sulla ripartenza e su come la nostra vita cambierà o non cambierà. Infine, grandi esperti di economia e di finanza ci illustrano continuamente il mondo di prima e di dopo, facendo proiezioni e previsioni, più o meno catastrofiche, su quello che ci aspetta e su come vivremo il nostro futuro immediato e/o a lungo termine (su questa ultima distinzione sono tutti molto precisi, in modo tale da avere sempre ragione qualunque cosa accada). Non ho visto, né sentito, però, nel lungo zapping multimediale, a cui siamo costretti ogni giorno, una riflessione sui temi di vita spirituale a cui il virus ci ha, nostro malgrado, condotto: per esempio? Il senso stesso della vita, delle relazioni umane, sociali e non, il senso della morte e della sofferenza. Dare senso a quei valori positivi (questa la mia traduzione di spiritualità: un sistema di valori positivi che ci portano ad assumere un credo personale: qualcosa o qualcuno in cui credere) che possono sostenerci in questi giorni di angoscia e di preoccupazione.

Il primo che vorrei suggerire è il senso spirituale dell’attesa. Attendere vuol dire, nel nostro gergo comune, aspettare qualcosa che per noi rappresenterà il compimento di quello che dovrà cambiare in meglio la nostra esistenza, Noi cristiani viviamo il tempo liturgico dell’Avvento riflettendo sull’attesa della venuta definitiva del redentore. Nella messa, dopo la consacrazione ogni volta diciamo: “annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta” e dopo la preghiera del “padre nostro” il sacerdote prega così: “… nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo!” 
Proprio nel tempo liturgico dell’Avvento ho più volte spiegato che il senso dell’attesa, vissuto cristianamente, rappresenta il sentirsi di appartenere a questa terra, ma con lo sguardo rivolto verso il cielo, sapendo di dover tornare a casa, la casa definitiva, dove, dice il libro dell’Apocalisse, “non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né dolore, perché le cose di prima sono passate”. Attendere qualcosa di importante vuol dire collocare nella giusta dimensione le cose di questo mondo  sapendole mettere al giusto posto e col giusto valore: significa, in definitiva, sapere se una cosa è davvero essenziale oppure se possiamo farne a meno. Diciamoci la verità: tante cose frivole, a cui eravamo legati, oggi ci sembrano meno importanti: di fronte al bene della vita, abbiamo capito che possiamo fare a meno di tante cose, che senza di esse possiamo vivere senza che il mondo vada in frantumi. Lo so: molti si sono riscoperti corridori instancabili e professionisti incalliti dello jogging, solo perché qualcuno ha detto che non potevamo scendere in strada e qui mi è scattata la domanda: “non è che abbiamo in odio lo stare da soli con noi stessi? non è che porci la domanda su cosa davvero serva nella vita è un esercizio che ci costa una fatica immane? Non è che attendere, sul serio, che questo tempo si consumi verso il compimento è qualcosa a cui non siamo per niente abituati, noi della generazione del tutto e subito?” Allora imparare il senso dell’attesa è un valore che dobbiamo cominciare ad apprezzare. 
Il secondo valore spirituale è la speranza! Insieme all’attesa la speranza cammina sulle ali della vita in questi giorni terribili. Sicuramente viviamo l’attesa che tutto finisca, portandoci dentro la ferma convinzione che tutto andrà bene, che tutto finirà bene, che non finiremo male, che non ci sarà alcuna ecatombe e che ritorneremo tutti a vivere la vita di prima. La speranza, vedete, è credere che quello che attendo si realizzerà. Sperare non vuol dire: ”mi può andare bene o mi può andare male, io spero che mi vada bene!”. Sperare vuol dire lottare e credere oggi nel mondo che vedo per domani, è sapere che costruisco oggi quel mondo che sogno per il mio domani. Il mio impegno, persino il mio sacrificio e le mie rinunce, sono la costruzione di quello che desidero con tutto me stesso, costruisco con il mio oggi e la sua fatica, quello che spero per il mio domani. 
Ho sentito in una trasmissione una bella espressione che mi sono anche appuntato: “il pessimista vede in ogni opportunità una difficoltà, l’ottimista vede in ogni difficoltà un’opportunità”: questo traduce bene il senso cristiano della speranza, che vuol dire lottare perché il mio domani sia migliore del mio oggi, che la vita eterna promessa da Dio si costruisca con il sudore del mio quotidiano, del mio oggi fatto di dolore. 

Voglio concludere con un corposo brano di Victor Frankl, psicoterapeuta austriaco, nel campo di Auschwitz: “Era stato un giorno durissimo: poco prima, durante l’appello, ci fu detto quali atti sarebbero stati d’ora innanzi giudicati “sabotaggio” e puniti pertanto con l’impiccagione immediata. Dunque cominciai e cominciai con la più banale consolazione: presi a parlare spiegando come persino la nostra situazione attuale non fosse la più tremenda tra quelle che si potevano immaginare nell’Europa della seconda guerra mondiale e del sesto inverno di guerra; feci dunque assegnamento, a tutta prima, su un effetto di contrasto che pensavo di sfruttare. Dissi poi che ognuno di noi doveva chiedersi che cosa avesse perduto, finora, d’insostituibile. Feci delle riflessioni su questo punto, concludendo che la maggior parte di noi aveva perso ben poco d’essenziale. Almeno, chi era ancora in vita, aveva buoni motivi per sperare. Salute, felicità domestica, rendimento professionale, patrimonio, posizione sociale, erano tutte cose che si potevano sostituire, che si potevano ritrovare o rifare. “Abbiamo ancora le ossa intatte!”. 
E nonostante tutto quello che ci avevano costretto a subire in quell’ultimo periodo, il futuro, per noi, poteva ancora avere un senso. Citai Nietzsche: «Ciò che non mi uccide, mi rende più forte». E poi parlai del futuro. Dissi che il futuro poteva apparire squallido, agli occhi di un osservatore imparziale. Convenni che ognuno di noi poteva calcolare approssimativamente quanto poco probabile fosse uscire vivi dal Lager … valutavo al 5 per cento la speranza di sopravvivenza, e lo dissi agli altri. Poi dissi anche che io, per quanto mi concerneva, non pensavo neppure di lontano, nonostante tutto, a rinunciare alla speranza, ad abbandonare la lotta: perché nessun uomo conosce il futuro, nessun uomo sa che cosa può portargli magari l’ora successiva. 
E se non era lecito attendere per l’indomani eventi militari sensazionali, chi meglio di noi (con la nostra esperienza del lager) poteva sapere se non sarebbe sopravvenuta all’improvviso una qualche prospettiva, almeno per qualcuno: un’insospettata inclusione in un piccolo trasporto verso un campo di lavoro a condizioni particolarmente favorevoli, o qualcosa del genere. Cose che sono la grande aspirazione di un internato: la sua “felicità”… Seppi presto che questo mio sforzo aveva raggiunto il suo scopo. Quasi subito riprese ad ardere la lampadina elettrica appesa a una trave della nostra baracca, e vidi le misere figure dei miei compagni accostarsi al mio posto, zoppicando, gli occhi pieni di lacrime, per ringraziarmi... Devo però confessare di aver avuto solo raramente la forza interiore per innalzarmi a un ultimo, intimo, contatto con i miei compagni di sofferenza, come quella sera...” 

Vuole essere questo il mio augurio e la mia speranza!

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