Educare a vivere, piccoli passi verso il cambiamento
di Katia De Marco
Quando decisi di voler essere un’educatrice i libri mi hanno
aiutato a realizzare e raggiungere il mio obiettivo, ma le esperienze
lavorative mi hanno insegnato molto altro.
Essere una educatrice innanzitutto
significa voler “aiutare”, e forse è vero che bisogna dover avere un po' l’animo
da crocerossina. Significa essere empatici, comprensivi, pazienti, incoraggiare
gli altri dandogli motivazioni per credere in se stessi, è dimostrare che tutto
può cambiare se lo si desidera fortemente, è un modo diverso di amare, è un
modo diverso di sentirsi vivi “donando”.
Ricordo perfettamente quel giorno, quel giorno decisi di
dover reagire a quel periodo che mi faceva sentire vuota, e sapevo che solo
un’esperienza forte sarebbe stata in grado di darmi una scossa, di smuovermi
qualcosa da dentro.
Trovai su internet “COOPERATIVA SOCIALE, CENTRO DI
SOLIDARIETA’, IL DELFINO”. Cercai il numero e chiamai per parlare con il
responsabile della struttura proponendomi come tirocinante. Due giorni dopo il
colloquio. “Comunità Eden”. Salendo le scale di quella struttura, ammetto di
aver detto a me stessa: “Ne sei sicura?”. Incrociando gli sguardi dei ragazzi
seduti lì fuori e che curiosi mi guardavano, ebbi come la sensazione di
invadere i loro spazi e di entrare nella loro casa senza averglielo domandato.
Mai avrei pensato che quella potesse diventare anche la mia casa e che le loro
vite mi travolgessero con la forza di un uragano. Paura, sensazione di non
farcela, insicurezza, lavoro su e con me stessa, provare ad approcciarmi a quei
ragazzi fu la cosa più difficile. Ma poi quei sorrisi presto divennero
motivazione, creazione, unione, divertimento, condivisione, emozioni, ed infine
un “GRAZIE”. In quei mesi di tirocinio fui impegnata alla realizzazione del
progetto ideato dal responsabile della comunità, il dottore Monaco, “La passione
di Cristo”.
Dovevo trovare un modo, il modo di far emergere le loro
potenzialità, le abilità, le capacità, le idee, e la voglia di far gruppo e di
essere uniti era così forte che ben presto quello che era nato come progetto
diventò un vero e proprio laboratorio manuale-creativo ed un laboratorio
teatrale. I ragazzi della comunità, nonostante le difficoltà e la loro realtà
con la quale si ritrovavano ogni giorno a dover fare i conti, si lasciarono
coinvolgere (e non fu semplice) impegnandosi e credendoci come, forse, non
avevano mai fatto. La sera della rappresentazione non fui io a “dare” a loro ma
il contrario. L’emozione più grande furono i loro occhi lucidi quando a fine
rappresentazione tutti applaudirono. Per la prima volta non vennero additati,
ignorati ed emarginati, questa volta ricevettero dei complimenti, questa volta
riuscirono ad affrontare l’ansia, l’agitazione e la paura, trovando il coraggio
e la forza senza far uso di sostanze. Quella sera affrontarono tutto nei modi
più belli e rari, facendo gruppo, unendosi, rivolgendomi i loro sguardi
rassicurandosi di non essere soli, con un sorriso, con un abbraccio.
Dopo quasi due anni da quel momento, qualche mese fa
ricevetti una telefonata dove mi si proponeva di aiutare gli educatori, gli
operatori e le volontarie della comunità, al progetto che stavano realizzando
“Il presepe vivente”.
Ammetto di aver avuto la stessa emozione dell’ultima
volta quando entrai di nuovo in quell’ampia sala d’ingresso, stavolta però
consapevole di ritrovare una équipe alla quale sono molto legata. Storie che ti
frantumano l’anima, vite troppo poco vissute, occhi chiari e bellissimi ma
infelici, testi di canzoni che raccontano desideri che aspettano solo di essere
vissuti, un padre che guarda con amore il figlio con la consapevolezza che
tutto può essere ancora salvato, una vita che forse non si è scelti, sbagli che
hanno distrutto un sogno, lacrime trattenute per un ricordo. Ognuno di loro,
anche stavolta, ha ricavato dalle difficoltà la voglia di farcela e di
dimostrare quel che sono, trasformando i luoghi della comunità in un ambiente
suggestivo che ha portato gli ospiti ad avere la sensazione di vivere il
presepe vivente. Ogni cosa costruita e creata da loro, ogni momento impresso
nella mente, ogni istante vissuto ha arricchito me e loro.
La felicità nei loro
occhi anche questa volta è stata la mia gratificazione.
Perché lo fai? Perché hai scelto questo lavoro? Perché lo
fai senza chiedere nulla in cambio? Perché impegni il tuo tempo libero per
questo? C’è un momento nella tua vita che hai pensato di salvare te stessa e
non gli altri? Queste sono le domande alla quale ho cercato di dare una
risposta con poche parole: “I vostri sorrisi mi fanno amare questo lavoro!”
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