L'uomo non è il suo reato e il carcere non è l'unico modo per scontare la pena


di Giusy Schipani, Cristina Ciambrone e Maria Sprizzirri

Alcuni appunti per riflettere

In un sistema penale perfetto ma controverso al tempo stesso, si fa largo spazio alla “giustizia ripartiva”, spesso tesi indigeribile per chi alla tentazione ha saputo resistere.
Davanti alla commissione, partecipazione e attuazione di un reato o di un fatto penalmente rilevante non si può possedere solo un’ottica punitiva in quanto si esclude automaticamente quella riabilitativa- riparativa.

Allora è necessario partire dall’origine e chiedersi qual è l’elemento scatenante che pone le basi per una condotta cagionevole?
Prendendo spunto da questa vasta domanda non si può non fare riferimento alla componente conflittuale che vige nell’intrapsichico di ogni essere umano. Nel sentire comune il termine “conflitto” è sinonimo di disagio, sofferenza, scontro, lotta, confusione, rabbia e guerra. È solitamente associato all’aggressione ed è spesso accompagnato a forme di violenza che possono distruggere individui, società ed ambienti, divenendo dunque un problema da estirpare. In realtà le antologie riguardanti l’essere umano, tra cui la mediazione, ci insegnano che il conflitto non è né positivo né negativo. È una forza naturale, insito nel proprio istinto di sopravvivenza. Ciò che conta è come il conflitto viene gestito.

La componente conflittuale dunque costituisce una dimensione che attraversa l’esperienza umana sotto ogni  profilo e vede coinvolti non solo adulti ma anche persone di minore età.
Il coinvolgimento in un reato o in un fatti penalmente rilevanti, di una persona adulta o minore che sia è quasi sempre espressione di un conflitto: con l’altro, con la società e non di rado con se stessi.
Ciò che accomuna Autori e Vittime di reato è che si trovano loro malgrado a condividere un’esperienza che non si conclude con il fatto – reato, ma anzi le conseguenze sulle loro vite che perdurano anche a lungo tempo. Eliminare la dimensione conflittuale che attraversa l’esperienza umana non è possibile. È tuttavia possibile, e necessario, approntare contesti e strumenti che permettano di imparare a riconoscere, affrontare e se possibile superare il conflitto, o perlomeno gestirne le conseguenze, contribuendo a ricostruire un clima di fiducia nell’altro e in sé, nonché a ripristinare la condivisione delle regole e dei valori fondamentali del vivere comune. Questo vale anche a seguito di fatti ‘gravi’, che esulano dalla conflittualità quotidiana. Direi, anzi, che questo è necessario soprattutto a seguito di simili fatti, di lesività tale da rendere necessario l’intervento pubblico del sistema giustizia. Non è un caso se fra i compiti che la legge istitutiva assegna a questa Autorità – in particolare all’art. 3, comma 1, lett. o), della legge 12 luglio 2011, n. 112 – figura specificamente quello di «favorire lo sviluppo della cultura della mediazione e di ogni istituto atto a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età, stimolando la
formazione degli operatori del settore».  Negli ultimi tempi la mediazione è cresciuta d’importanza, perché il monopolio della funzione disciplinare della giustizia penale oggi evidenzia dei limiti nel governare la violenza e i reati. 
La concretizzazione dell’attività di mediazione, rivolta a far giungere le parti ad un accordo da sottoporre successivamente al vaglio del giudice, trova applicabilità non solo nell’ambito della criminalità minorile ma anche nel sistema penale rivolto agli adulti. Infatti nell'ambito dell'esecuzione della pena dei condannati adulti, particolare rilievo applicativo sono venute assumendo le disposizioni dell'art 47, comma 7, della legge 26 luglio 1975 n. 354, "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà", e dell'art. 27, comma 1, del D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230, "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", relative alla giustizia riparativa. Al fine di promuoverne una congrua applicazione, è stata istituita con decreto di questo Capo del Dipartimento del 26 febbraio 2002 la Commissione di studio "Mediazione penale e giustizia riparativa", composta da personale dell'Amministrazione Penitenziaria ed esperti esterni, che ha avuto come obiettivo quello di definire le linee guida che assicurino, nell'ambito dell'esecuzione penale di soggetti adulti, l'adozione di modelli negli interventi di giustizia riparativa, che risultino conformi alle Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d'Europa, con la Dichiarazione di Vienna del 2000 e la Risoluzione 27 luglio 2000, n. 2000/14 sui principi base sull'uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale, emanate dall'Economic and Social Council.

Tra i reati commessi, accanto a quelli più «tradizionali» quali furti e lo spaccio di sostanze stupefacenti, ne troviamo alcuni legati alla litigiosità verbale che spesso scaturisce nell’uso di vie di fatto. Forse, ma siamo solo nel campo dell’ipotesi che la criminogenesi di questi comportamenti può ritrovarsi in quella mancanza di comunicazione e di comprensione della norma non solo giuridiche, ma anche socio-comportamentali  che attraverso un’attività di mediazione, potrebbero essere conosciute e interiorizzate e, quindi maggiormente rispettate.
È un dato oramai  certo che le varie esperienze di mediazione, pur con i limiti fisiologici di ogni nuovo percorso, abbiano portato a risultati apprezzabili.
Considerando l’ottica riparativa, si evidenzia il binomio mediazione – prevenzione  che si manifesta non solo nell’evitare il degenerare il singolo conflitto, ma soprattutto nel diffondere tra le persone l’idea che il conflitto stesso non sia risolutivo di ogni situazione m, al contrario, che il mediare può divenire la vera strada percorribile. Si afferma infatti che la mediazione sia strumento atto a incoraggiare lo sviluppo di norme sociali che orientano comportamenti conformi alla sicurezza. Non vi è dubbio che la mediazione soprattutto penale funzioni, sia efficace e dia risultati immediatamente percepibili; ma occorre altresì pensare sempre in un’ottica di prevenzione, supportata dal necessario affiancamento di altre attività analoghe che siano più coerenti e vicine alla realtà sociale in cui si opera.
L’avvento di una nuova centralità delle vittime nell’ambito della giustizia penale e del pressoché contestuali affermarsi della teoria e della prassi della mediazione penale, possono essere annoverati tra i cambiamenti più importanti verificatosi nel campo del crimine a partire dagli anni '70.



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