Nato ai bordi di periferia



di Raffaele Gencarelli

Sono nato ai bordi di un fiumiciattolo calabrese, tutta la mia infanzia e parte dell’età adulta è stata costernata dallo scorrere perpetuo dell’acqua del fiume Duglia. 
Il fiume è la metafora della mia vita, ora calmo, limpido e placido, ora in piena, burrascoso e agitato. Sono cresciuto così, giocando nelle sue acque cristalline, in una frazione di campagna, con poche case ma in ognuna tanti figli, tanti bambini che avevano pochissimo da spartirsi, i giochi erano inventati. L'acqua o le fogne in casa erano un miraggio, c’era una fontana di sorgiva, e li facevano ore di fila con i recipienti di terracotta che compravamo dai mastri di Bisignano. 
Noi siamo 5 fratelli, nati a poca distanza uno dall’altro, avevamo una capretta - Giggiarella - che era la fonte preziosa del latte per la nostra colazione, un pezzo di pane raffermo impreziosiva la zuppa mattutina. 
Nei periodi in cui “Giggiarella” non apriva la latteria, mamma alle sei di mattina metteva la “fressura” sul fuoco e preparava le patate fritte per colazione. E poi via, tutti a scuola, felici ed ordinati, educati. D’estate  era tutto più facile, un paio di sandali di plastica, un pantaloncino corto e maglietta sportiva e si partiva in gruppo per epiche avventure, catture di rane, bagno nel fiume, non di rado andavamo a rubare frutta (espropri proletari) facendo attenzione a non farci beccare dai proprietari, perché una volta beccati e riconosciuti, lo stesso si recava presso le famiglie a denunciare il maltolto, chi si occupava di applicare la giusta pena, erano le madri che una volta rientrati a casa, applicavano con molta dedizione, la famosa “tappinoterapia” su gambe e glutei. 
Io ero un fiero ribelle, ma riconosco che la “tappina” di mamma, che beninteso non aveva certo studiato il metodo Montessori, su di me ha fatto miracoli. I padri erano per lo più assenti, lavoravano fuori, da emigranti, Germania, Svizzera, Stati Uniti o Argentina, ma anche nel nord Italia, dove comunque erano considerati stranieri ( sentivo raccontare storie molto brutte di razzismo).  Mio padre lavorava nelle gallerie, spesso era assente, aspettavamo con ansia il suo ritorno. Un giorno ( avevo 6 anni, era il 1968) giocavo in strada e vidi la sua figura in lontananza, mancava da 5 mesi, lo vidi con il suo inconfondibile modo di camminare, i suoi capelli con il ciuffo all’insù, una borsa di stoffa a tracolla. Mi fiondai ad abbracciarlo, gridando tutta la mia gioia, arrivarono anche i miei fratellini, ci aggrappammo alle sue gambe, alle sue braccia poderose, piangevamo e ridevamo di felicità. 
La grande Quercia era ritornata, la famiglia era riunita, entrammo in casa e papà tolse dalla borsa di telo delle strane scatolette con una mucca disegnata,  una chiavetta attaccata sopra. Papà tolse la chiavetta, la infilò in una linguetta al lato della scatoletta ed arrotolando la aprì. Fu la prima volta che vidi la carne Simmenthal, papà l’aveva risparmiata dalla sua porzione nella mensa del cantiere, non le aveva mangiate per portarle a noi. Io non so dirvi se oggi ci sono ragazzi che vivono felici con poco o niente, voglio sperarlo, ci voglio credere però questo è un altro mondo, troppo diverso totalmente cambiato. Io sono stato fortunato ma una cosa resta immutata, la possibilità di amare. Amate voi stessi, amate la famiglia, amate la libertà, amate e donate agli altri. 
Questo è il solo modo che conosco affinché possiamo essere umanamente più ricchi in un mondo in evoluzione.

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