La riscoperta del gruppo nell’elaborazione del lutto



di Azzurra Mazzocca

La droga uccide. Quante volte abbiamo sentito questa frase? È semplice pensare alla droga come agente danneggiante, sapere che qualsiasi sostanza costituisce un fattore di rischio per la propria salute. Però quando realmente muore qualcuno ci si rende conto che tale consapevolezza, nella sua semplicità, non basta. Come lo descrivi un corpo consumato e in fin di vita? Non esistono parole. E allora è necessario fermarsi a riflettere. Questo è ciò che è successo nella Comunità Eden del Delfino quando, in seguito alla morte di un membro del gruppo, ci si è ritrovati a vivere un vortice di emozioni negative.
Chi vive la comunità di recupero è consapevole che il gruppo sia un’entità psicologica diversa dalla somma dei suoi componenti, la cui diversità è data proprio dalle relazioni dinamiche esistenti tra gli stessi individui. Si tratta di un ingresso progressivo in un ambiente culturale condiviso in cui la riflessione e il dialogo che ne conseguono permettono di costruire regole di vita, condotte adeguate e aspirazioni a migliorare. I membri del gruppo sono persone accomunate dalla volontà di voler raggiungere uno stesso obiettivo, ossia quello di disintossicarsi dalla sostanza e ricominciare a vivere. Il percorso per raggiungere tale obiettivo è però tortuoso e complicato in quanto è necessario considerare non soltanto il problema della dipendenza ma anche le conseguenze sociali che ne derivano. In tale periodo di rieducazione e di reinserimento sociale, il gruppo rappresenta dunque l’elemento centrale, rafforzato dalla graduale diminuzione del senso di solitudine e di emarginazione. Vivendo insieme si riacquisisce il senso di civiltà, si innescano una serie di processi relazionali da cui nasce un vero e proprio senso di appartenenza.
È per tali motivazioni che, in seguito alla morte di uno degli ospiti della comunità, è doveroso creare uno spazio di rielaborazione del lutto. Affrontare un evento negativo significa imparare a crescere e ricordarsi che vivere in comunità non può essere un anestetico della realtà. Gli operatori hanno infatti il compito di guidare gli utenti verso la riflessione di quanto accaduto, facendo emergere soprattutto le emozioni negative. Serve una buona dose di coraggio, oltreché un’efficace comunicazione che apporti input per una successiva riflessione. È così che gli operatori della Comunità Eden hanno deciso di affrontare questo delicato momento, poi però a stupire sono sempre gli ospiti… Alcuni decidono di condividere con il gruppo i propri pensieri, altri chiedono un momento di silenzio. È guardandoci negli occhi e interagendo esclusivamente con il linguaggio del corpo che ci si rende conte che, questa volta, il gruppo ha vinto. Stava emergendo un’unica entità emotiva e si lasciava da parte la propria individualità.

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