Riflessioni sull’insegnamento di don Milani


 
di Salvatore Monaco

Capita a volte di riflettere sui cambiamenti storici che attraversano il fenomeno droga e di conseguenza la modalità di cura e presa in carico dei servizi di disintossicazione e riabilitazione. In questa mia umile e personale riflessione non posso che non soffermarmi sul pensiero di don Milani, dove il fulcro è rappresentato dal fatto che  gli ultimi o i fragili,  sono i primi e i poveri sono i più beati di tutti. 

Più che una riflessione teorica e tecnicistica sulla  metodologia usata per aggredire il fenomeno droga da parte dei servizi, pubblici come i Sert o privati come le comunità terapeutiche, voglio soffermarmi sull’importanza della relazione che si viene a stabilire tra operatori e ospiti che entrano in questi servizi di cura  nel tentativo di  dare una svolta alla loro vita caotica e disorganizzata, spesso priva completamente di affetto e amore.   

Il  metodo di insegnamento di don Milani puntava a formare le coscienze prima delle competenze, è tutto ispirato a un’idea inclusiva della scuola. Ripeteva spesso: «Una scuola che perde i più fragili non è più una scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Spesso mi sono sentito dire da diverse realtà del sociale  di non investire tempo con quel particolare ospite, poiché sarebbe stata solo una perdita di risorse ed energie, che sarebbe stato il solito buco nell’acqua. Ma quanti utenti ostici, ingestibili,  chiusi emotivamente,  si sono dischiusi dopo che si è creato un contatto relazionale adeguato che era impensabile al momento del suo ingresso. Un servizio che cura solo i “complianti” ossia quelli che rispondono subito bene  ai trattamenti e non accetta casi difficili e dispendiosi di energie,   è come l’ospedale che cura solo i sani e respinge chi ha proprio nella difficoltà ad aprirsi alle relazioni come problema fondamentale, in cui la droga rappresenta spesso l’unico rifugio possibile per spegnere ogni interruttore, che interrompe la comunicazione cuore/mente. Quindi  la maggior parte del lavoro secondo me, più che circondarsi di strumenti diagnostici o di nuove teorie miracolose di intervento sul disturbo, è accogliere semplicemente l’altro, formare le coscienze  lavorando sull’abbattimento di stereotipi e pregiudizi che purtroppo condizionano ancora tanto questo difficile universo del sociale. 

L’operatore di comunità, ha il difficile compito di  stimolare nell’ospite che si trova di fronte, il senso di responsabilità, occuparsi davvero degli altri, condividere con loro un problema che diventa anche il suo, il nostro. L’operatore, facendo tesoro degli insegnamenti di don Milani, dovrà fare leva su uno stile di vita fondato sulla condivisione, sullo stare insieme, sull’attenzione verso gli altri, sul Noi: il contrario dell’indifferenza e del super individualismo che ha caratterizzato il panorama sociale per anni, sotto il segno dell’Io, Io, Io. Si esce dalle dipendenze quando quell’io, io , io, diventerà finalmente un NOI.


Commenti

I più letti

Il Gran Premio della vita

Gli "hikikomori": isolati e esiliati dal mondo

Siamo circondati da vampiri emozionali. Chi sono e come riconoscerli